Francesco

Questa è una parte del percorso che Francesco faceva, per tornare a casa. Da due anni in pensione, alla solita ora salutava gli amici con i quali aveva trascorso alcune ore a giocare a carte, e poi si incamminava lentamente, guardandosi intorno, perché la sua città gli piaceva. Le strade, i palazzi. Lo difendevano.
Adesso non è possibile fotografare Francesco nel suo tragitto verso casa. Francesco è morto.
Se n’è andato di buona mattina, tra la costernazione dei parenti, che ancora lo vedevano giovane, e forse lo era, ancora un po’. Nel fisico, almeno. Se n’è andato quella fredda mattina in cui è passato dal sonno profondo a qualcosa che non conosciamo, anche se sappiamo in attesa di ognuno di noi, appena dietro l’angolo, al termine di una fila di case stese a protezione dei nostri passi.
Era giovane, Francesco, relativamente, giovane nel fisico ma non nei pensieri. Nelle speranze. Affrontava l’oggi e temeva il domani come un vecchio. Le sue aspettative, erano quelle di una persona ormai troppo avanti negli anni. Le sue speranze, da tempo costituivano il fertile terreno dove rigogliose prosperavano, cocenti, le sconfitte che quotidianamente lui si procurava, attraverso il reiterato rituale della rinuncia.
Semplicemente, Francesco non si riteneva all’altezza dei propri sogni.
Quali siano stati, questi sogni, è inutile adesso specificare: erano i sogni che tutti noi coltiviamo, che solo da giovani abbiamo avuto il coraggio di nutrire, di veder crescere, e verso i quali ostentiamo forse oggi un falso atteggiamento di indifferenza, come non esistessero o non fossero mai esistiti, quasi ci bastasse il solo vivere per respirare, il solo respirare per vivere.
Non vivevamo, di quei sogni?
Francesco, sì, viveva per questo. E noi pure.
Chi può capire quali speranze avesse, quali cime aspirasse raggiungere, fermandosi a guardare la lapide che oggi nasconde il suo corpo? Quel marmo così uguale a tanti altri, persino nelle date che sopra porta incise, di partenza e arrivo; una lunga fila di quadrati di pietra che insieme segnano il tempo trascorso e finito di una intera generazione. In silenzio, così come quella generazione ha vissuto. Ché son pochi a dare corpo ai propri sogni, permettendo che questi acquistino una voce che oltrepassa il tempo a noi concesso per vivere. Lasciando una traccia. Un segno. Un piccolo verso nell’immenso spettacolo.
Non è per questo, che siamo qui?
Francesco un tempo lo pensava: credeva ci fosse un motivo sottinteso alla sua presenza in questo mondo, una missione da compiere, una esperienza da vivere e alla fine, e in fondo, in quel piccolo spazio di speranza strenuamente difeso, sì, un sogno, un sogno da realizzare.
Non ha importanza sapere quale, e se lo abbia mai confidato a qualcuno, ma possiamo essere certi che questa bellissima città lo avrà visto, in uno dei suoi tanti giorni, felicemente perso tra strade e mare, trasportare il suo sorriso, ancora giovane, per moli e sentieri di terra battuta, la fronte al sole e gli occhi fissi verso l’orizzonte.
Ma gli orizzonti sono sempre molto lontani, e la traversata che porta dal sogno alla realizzazione è lunga, e ardua, e fitta di mare in tempesta, onde altissime da risalire e baratri liquidi nei quali cadere.
C’è un cammino lungo e faticoso da compiere, e forse Francesco, nel tempo, ha preso l’abitudine a dormire ancora un poco, mentre invece avrebbe dovuto alzarsi e iniziare a correre.
Ci sono cadute da affrontare, e serve forza per rialzarsi subito in piedi, e forse Francesco ha preso l’abitudine di attardarsi col culo per terra, solo per poco, a guardarsi le ginocchia sbucciate e lamentarsi per la polvere sui vestiti.
E in quei precisi istanti nasceva e cresceva una domanda: ne valeva davvero la pena?
Era così piacevole attardarsi a dormire, quando poteva. Erano davvero rovinose, le cadute, e sempre maggiore forza serviva, per rialzarsi. E in fondo, nelle facce che lo circondavano non trovava la sua stessa muta domanda, di qualcosa di più. Il mondo intorno a lui sembrava accontentarsi di com’era. Forse quel che già c’era poteva bastare anche a lui. Forse quel che c’era, era tutto. Forse una vita semplice, senza tante pretese, era preferibile a quella lotta estenuante che sembrava non portare che a delle sconfitte.
Respirare per vivere. Vivere per respirare.
Così, pian piano il sogno di Francesco si era allontanato, e in qualche modo, nella distanza, diveniva sempre meno doloroso pensarci. Si era trasformato in un mesto sorriso, verso le ingenue speranze della gioventù.
Soltanto un giorno, poco prima di lasciare per sempre la sua città, un pensiero diverso lo aveva sfiorato. Un pensiero freddo.
Si trovava seduto su una panchina del lungomare, a guardare uno splendido tramonto, e tutta quella magnificenza gli elevava lo spirito, portandolo a quella sensazione di immenso che spesso, da giovane, aveva provato. Sembrava un risveglio tardivo di speranza, uccisa sul nascere da una improvvisa consapevolezza.
Lui, Francesco, era sempre stato frenato dalla paura di vincere. Abbattere il muro e vedere cosa c’era oltre.
Un colpo di vento gelido lo scosse, congelando una lacrima sul nascere.

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