Anna si ferma a guardare la vetrina attraverso la grata della saracinesca tirata giù, poi alza gli occhi come a fissare l’insegna del negozio ancora accesa. La sua amica resta con un piede rasoterra, frenata nello slancio e resa incerta dagli occhi forse tristi di Anna, nel breve lampo di un attimo, persi in un vuoto di cui non conosce il nome.
Sembra guardi l’insegna, Anna, ma non è così: solo a piccoli scatti si concede di indugiare col ricordo a vivere oltre il vetro della finestra che sormonta il negozio. Attraverso spessi strati di polvere riesce a intravedere lunghe file di scatole accatastate alla rinfusa, appoggiate a pareti che conosce bene. Spigoli di cartone tagliano le ombre come coltelli.
E’ solo un attimo. Una sbavatura sulla vernice. Ma è come una nuova crepa in un muro che non sa più come tenere in piedi.
Le due amiche riprendono a camminare. Anna non dice una parola e l’altra si sente ancora con un piede rasoterra, in cerca di un solido terreno che per adesso le manca. Ha perso il filo del discorso, una lieve deviazione le ha portate fuori strada, e non ha idea di dove stiano andando. In qualche modo, capisce che rispettare il silenzio è la scelta migliore.
Raggiungono l’incrocio, e Anna sembra inciampare con gli occhi sulle vetrine del bar all’angolo. All’apparenza non riesce a sostenerne la vista. Se potesse esistere una profondità maggiore all’assoluto silenzio, la sua amica saprebbe scoprirla e raggiungerla.
Anna affretta il passo, come volesse sottrarsi a sguardi che potrebbero riconoscerla; cerca di contrabbandare il proprio corpo oltre le luci del bar.
Lei sempre così misurata e attenta, e ponderata, si chiede smarrita come abbia potuto abbandonarsi alla follia di poche settimane vissute come se nessuna regola esistesse, e perché invece di scacciare quel ricordo come il gioco pericoloso di una bambina incosciente, rimpianga quei giorni con la forza di un immenso dolore.
Non c’era niente di vero, a parte il radioso sorriso che sfoggiava nelle piovose mattine di quel freddo inverno, lucide come la lama di una spada, mentre saliva velocemente la breve rampa di scale, le mani tenute a coppa per non lasciar freddare il cappuccino comprato al bar, e poi con una lieve sospensione del respiro apriva la porta che portava a quella stanza stretta e lunga come un corridoio.
Buia come il fondo oscuro di un labirinto.
Lo trovava ancora sveglio, dopo una notte insonne attraversata quasi a nuoto, seduto di fronte al computer scassato, con a fianco un posacenere pieno di cicche, le mani che lievi esploravano gli spigoli del tavolo in cerca di una ispirazione riluttante a mostrarsi.
A volte lui si voltava a guardarla con occhi spiritati e non sembrava riconoscerla, e il cappuccino restava a freddarsi mentre lei cercava di raggiungerlo attraverso l’aria spessa come il cotone.
Altre volte invece lui si alzava di scatto alla sua vista, le si faceva incontro spiegando un sorriso da folle, le strappava dalle mani il bicchiere e beveva a lunghi sorsi, poi la faceva sedere al suo posto perché leggesse quella mezza pagina, frutto di tormentate frustrazioni notturne. Le sue meravigliose parole.
Anna non sapeva se potessero considerarsi tali, distratta dalle mani di lui che iniziavano a frugarla dappertutto. La maggior parte delle volte non arrivava a leggere oltre le due righe.
Come in un sogno, si alzava e lasciava che lui la spogliasse. Teneva gli occhi chiusi, anche quando lui la prendeva per mano tirandola verso il letto. Si distendeva su lenzuola che non conservavano il ricordo di acqua e sapone. Assecondava ogni suo desiderio o capriccio, a lungo, e mentre la luce e il traffico appena oltre lo sporco vetro della finestra perdevano realtà o significato, si sentiva sprofondare in qualcosa che se anche non avrebbe potuto definire piacere, aveva il potere di annullare ogni cosa intorno, una sensazione di incredulo distacco da quanto era stata fino a quel momento la sua vita.
Capiva di trovarsi oggetto di una furia disperata, al centro di un buco nero che tutto aspirava con violenza per poi gettare quel che restava chissà dove, l’anima lacerata, masticata e inghiottita dalla forza bruta dell’universo. Ma questo, invece di spaventarla, la quietava, come se disperdersi nel buio senza fine fosse il suo destino.
Quando tutto era finito, restava a fissare il soffitto decorato di ragnatele, mentre lui con parole esaltate le spiegava il senso della sua ricerca, del suo lavoro, finché non collassava esausto in un sonno tormentato. Lei sapeva che avrebbe dormito fino alla prossima notte, quando di nuovo poteva esplorare il buio, perso nella sua fatica senza fine e forse inutile.
Anna si alzava in silenzio, si rivestiva senza riuscire quasi a guardarsi intorno, e lasciava la stanza che avrebbe rimpianto per tutto il resto del giorno. Sembrava nell’aria mancasse qualcosa di essenziale, quando non si trovava tra quelle strette mura. Aspettava con ansia la sera, si gettava tra le braccia della notte come in un tuffo nell’acqua gelida, sempre sognando di trovarsi con lui, esplorata da lui, annientata da lui. Si svegliava al primo chiarore dell’alba, sudata, ansante, e subito prendeva a vestirsi con furia, pervasa dal folle ma lucido desiderio di raggiungerlo il prima possibile.
Così scorrevano i giorni, e non avevano un nome.
Ma una mattina il cappuccino restò a freddarsi tra le sue mani, mentre per lunghi minuti fissava il computer scassato gettato di traverso sul marciapiede, e la finestra con le ante insolitamente aperte, dalla quale giungeva un rumore come di lavori in corso.
Salì le scale a passo lento, trovò la porta aperta, e un paio di operai con la tuta sporca di polvere affaccendati a sgomberare. Uno di questi si fermò a fissare il cappuccino che ancora teneva in mano, forse chiedendosi da dove arrivasse e a chi fosse destinato.
Lei poggiò il bicchiere per terra e fuggì correndo sulla lama della disperazione.
Percorse in un soffio l’intera via Grande, si lasciò alle spalle il cantiere navale, e solo quando giunse alla grande terrazza affacciata sul mare si fermò, boccheggiando, le mani poggiate sulla fredda balaustra, a fissare con aria inebetita l’orizzonte sfumato di nebbia.
Nella sua immaginazione ormai fuori controllo le sembrò di vederlo seduto al timone di una barca a vela. Si allontanava offrendole solo le spalle, senza un saluto.
Era fuggito. Forse era morto. Non lo avrebbe mai saputo.
Nei mesi successivi aveva evitato con cura di passare davanti a quel portone, solo le chiacchiere dell’amica l’avevano distratta al punto da non rendersi conto di dove si trovasse, quel giorno, finché la sporca finestra non la aveva urlato in faccia le domande rimaste senza una risposta.
Camminando lentamente le due amiche sono arrivate in piazza della Repubblica. Anna si ferma, cercando di riprendersi la vita con lunghi respiri. L’amica la guarda preoccupata, e a malavoglia le rammenta che deve andare a sbrigare una commissione. Si allontana riluttante, più volte guardandosi indietro, incerta se tornare sui propri passi.
Anna resta da sola, al centro dell’immensa piazza, ancora per un po’.
Il luogo
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Il tipo misterioso e Anna, mi piace, hai centrato l\’obbiettivo raccontando il ricordo affiorato e rivissito con intensità, il mistero di che cosa sia successo non serve saperlo: possiamo immaginarlo, quello che resta è l\’intensa rievocazione del ricordo di Anna. Bravo Mario